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Semiotropie. Eredità di Barthes
A cura di Giuseppe Crivella




Lo Straniero, romanzo solare*
di Roland Barthes

(Traduzione di Giuseppe Crivella)

16 febbraio 2016




Lo straniero è senza dubbio il primo romanzo classico del dopoguerra (intendo primo non solo cronologicamente ma anche per qualità). Apparso nel 1942, letto da tutti nelle fasi successive alla liberazione, questo piccolo romanzo ha dato ad Albert Camus la gloria: si è rimasti legati ad esso come a una di quelle opere perfette e significative che compaiono durante certe cerniere della storia per segnalare una rottura e riassumere una sensibilità nuova. Nessuno ha protestato, tutti sono rimasti conquistati, quasi innamorati. L’apparizione de Lo straniero è stato un fatto sociale e il suo successo ha avuto la stessa consistenza sociologica dell’invenzione della pila elettrica o quella della stampa del cuore.

Il libro sembrava all’epoca, forse più di ora, propugnare una filosofia nuova, quella dell’assurdo. È il momento in cui il mito della coscienza spaesata «fa presa», si solidifica, passa dalla penna dei precursori alla consumazione del grande pubblico intellettuale; Kierkegaard, l’esistenzialismo tedesco, Kafka, i romanzieri americani, Sartre, tutta una costellazione di pensatori o di creatori di origini e di epoche diverse, si riunisce alla rinfusa nella coscienza del pubblico per definirvi un mito nuovo della libertà: l’uomo privato dei suoi alibi; rescisso tramite la sua lucidità dai suoi rifugi precedenti (Dio, la Ragione), gettato senza volerlo in una solitudine così grande che egli non aveva potuto fino ad oggi guardare in faccia, egli arriva a riconoscere in essa fino al tragico la sua solidarietà con un mondo che non comprende.

Al momento della sua pubblicazione, Lo straniero ha costituito una sorta di Digest di tutti questi temi: il suo eroe, Meursault, collocato nella quotidianità più mediocre, quella del piccolo impiegato, non vi si rivolta affatto; egli accetta senza alcuna rimostranza tutti i servilismi e compie tutti i gesti apparenti del conformismo sociale; ottempera anche ai riti dei grandi sentimenti, la filialità, l’amicizia. Ma tutto questo campionario di gesti proprio della passività Meursault lo riassume in una sorta di stato secondo, che è quello di una indifferenza fondamentale rispetto alle ragioni del mondo. Per esempio, Meursault seppellisce sua madre ma a ogni gesto convenzionale che egli compie lascia scorgere la lacerazione del rituale, egli accondiscende alla scena, non all’alibi morale che tutti vogliono attribuire ad essa. Ed è precisamente ciò che la società non gli perdona: Meursault, ribelle, la società lo avrebbe ammesso; Meursault opaco è il mondo rimesso in questione, la società non può che rigettarlo con l’orrore più vivo, come un oggetto sporcato dalla propria alterità, come il glomerulo intollerabile di un mondo che non si sopporta se non in famiglia e si sente minacciato così da voltarsi al minimo sguardo estraneo che vede posarsi su di sé.

Ciò che Meursault fa cessare con il suo sguardo è quindi una connivenza: il suo silenzio sulle buone ragioni del mondo è puro al punto da sottrarlo alla complicità e da lasciare davanti a lui il mondo allo scoperto: il mondo diviene l’oggetto di uno sguardo ed è proprio questo che il mondo non può tollerare: Meursault diventerà un assassino e il suo processo non sarà tanto rivolto ad un atto, ma ad uno sguardo: è il voyeur che è condannato in Meursault, non il criminale. È evidente come tale promozione dell’uomo, del tutto nuova, poiché essa è il ritrarsi dello Sguardo e non più rivolta del Gesto o della Parola, come nella mitologia romantica, nietzscheana o rivoluzionaria, sembrava accordarsi con i grandi temi della nuova filosofia: qui come lì, l’uomo non abbandona né la società per Dio, né Dio per il Male, né l’uno e l’altra per una utopia: l’uomo resta al suo posto, solidario con un mondo in cui è tuttavia assolutamente solo.

Naturalmente per questo nuovo tema era necessario un nuovo racconto. Poiché la singolarità di Meursault è legata al disaccordo dei suoi gesti e dei suoi sguardi, l’atto è promosso al rango di unità fondamentale del tempo romanzesco e non più le ragioni dell’atto, come nella psicologia del romanzo tradizionale. Meursault non è, propriamente parlando, né attore né moralista: egli non parla di ciò che fa; egli compie i gesti di tutto il mondo, ma questi gesti familiari sono privati di ragioni, di alibi, così che è la brevità stessa dell’atto, la sua opacità, che comunica la solitudine di Meursault.

Non è più un atto in eco che Camus ci propone, un atto completamente assorbito nella massa delle cause, delle giustificazioni, delle conseguenze e delle durate; è un atto puro, inconseguente, separato dai suoi vicini, sufficientemente solido per manifestare una sottomissione all’assurdo del mondo e sufficientemente breve per far esplodere il rifiuto di compromettersi in illusorie giustificazioni di tale assurdo.

Dieci anni fa l’attualità de Lo straniero era eclatante. Oggi questo piccolo libro, trasfuso in una forma cara ai francesi, il romanzo denso e minuto come un monile (La Princesse de Clèves, Adolphe) possiede una potenza ancora intatta. Senza dubbio il cammino tracciato da Camus è stato calcato in seguito da molti; tutta una letteratura lazaréenne, secondo la giusta formula di Cayrol, si è sviluppata, la quale dà all’uomo, credente o non, la saggezza e la solitudine di un resuscitato. E tuttavia Lo straniero è ancora un’opera fresca, questo libro splende oltre le mode che ne hanno potuto accompagnarne l’apparizione.

Lo rileggevo ultimamente ed ero colpito da ciò che Peguy avrebbe chiamato, con un termine di elogio, il suo invecchiamento: l’opera invecchia bene, matura, segue il tempo e lascia apparire a poco a poco dei poteri nascosti. Dieci anni, accaparrato come molti altri dalla tesi del momento, ne avevo colto soprattutto l’ammirevole silenzio che lo eguagliava alle grandi opere classiche, tutte prodotte da un’arte della litote. Ora, ai miei occhi, vi si rivela tutto un calore e vi scorgo un lirismo che sarebbe stato senza dubbio rimproverato di meno nelle altre opere di Camus se si fosse stati capaci di vederlo nel suo primo romanzo.

Ciò che fa de Lo straniero un’opera e non una tesi è il fatto che l’uomo vi si trova dotato non solo di una morale, ma anche di un umore. Meursault è un uomo carnalmente sottomesso al Sole e io credo che si debba intendere questa sottomissione in un senso quasi sacrale. Esattamente come nelle mitologie antiche o la Phèdre di Racine, il Sole è qui esperienza così profonda del corpo che ne diviene il destino; esso fa la storia e dispone, nella durata indifferente di Meursault, alcuni momenti generatori di atti. Non v’è uno dei tre episodi del romanzo (la sepoltura, la spiaggia, il processo) che non sia dominato da questa presenza del sole; il fuoco solare funziona qui con il rigore stesso della Necessità antica.

Come in ogni opera autentica, l’elemento mitico non cessa di sviluppare le sue figure e non è certo, per essere precisi, lo stesso sole a condurre Meursault nei tre momenti del suo racconto. Il sole funerario dell’inizio chiaramente non è altro che la condizione di un torpida densità vischiosa della materia: sudore dei visi o trasudamento del catrame sulla strada torrida ove va il carro, tutto qui è immagine di un ambiente vischioso; Meursault, come non si scolla dai riti, così non si distacca dal Sole e il fuoco solare ha la funzione di rischiarare e di assorbire l’assurdo della scena. Sulla spiaggia un’altra figura del sole: questo però non liquefa, indurisce, trasforma ogni materia in metallo, il mare in una spada, la sabbia in acciaio, il gesto in assassinio: il sole è arma, lama, triangolo, mutilazione, opposto alla carne molle e sorda dell’uomo. E nella sala di assise in cui Meursault è giudicato ecco infine un sole secco, un sole-polvere, il raggio vetusto dell’ipogeo.

Questo misto di sole e di nulla sostiene il libro ad ogni parola: Meursault non è solo alle prese con una idea del mondo, ma anche con una fatalità — il Sole — estensiva a tutto un ordine ancestrale di segni, poiché il sole qui è tutto: calore, assopimento, festa, tristezza, potenza, follia, causa e spiegazione.

È quindi tale ambiguità tra il Sole-Calore e il Sole-Lucidità che fa de Lo straniero una tragedia. Come nello Edipo a Colono o nel Riccardo III di Shakespeare la condotta di Meursault è doppiata da un itinerario carnale che ci fa aderire alla sua magnifica e fragile esistenza. Il romanzo è così fondato non solo filosoficamente ma anche sotto il profilo letterario: dieci anni dopo la sua pubblicazione qualcosa in questo libro continua a cantare, qualcosa continua a lacerarci, poiché è proprio questo il doppio potere di ogni bellezza.


* Prima apparizione in Bulletin du club du livre français, aprile 1954. Ora in R. Barthes, Œuvres complètes I, E. Marty, ed. du Seuil, Paris 2005, p. 478-481. Da ora in nota sempre abbreviato con OC seguito dal numero romano di riferimento del volume.



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